Home Blog

Camaldoli porta allo scoperto l’esigenza di una nuova politica d’ispirazione cristiana.

La tre giorni di Camaldoli ha suscitato un interesse superiore alle attese. Molti gli spunti, le suggestioni, gli approfondimenti: il Codice, pensato in occasione di un incontro nel luglio del 1943 e poi pubblicato nel 1945, rappresenta un documento fondamentale per capire la formazione della classe dirigente cattolica e il ruolo da essa esercitato nel secondo dopoguerra. Influì sulle scelte dei costituenti, ma impresse il suo sigillo anche sull’ordinamento civile ed economico.

De Gasperi, dopo la vittoria del 18 aprile, imboccò decisamente le strada delle riforme. Lo aveva promesso in campagna elettorale e ne fece oggetto d’impegno all’indomani della vittoria. Con coerenza. E dentro questa coerenza possiamo cogliere il nesso che lega fin dall’inizio, attraverso Sergio Paronetto, il leader della Dc e i giovani intellettuali di Camaldoli. Il 16 settembre del 1948, in Consiglio dei ministri, Ezio Vanoni illustrava la bozza della sua riforma tributaria e De Gasperi confesserà, in quella circostanza, di aver ritrovato “la coerenza con il Vanoni del Gruppo di Camaldoli cinque anni fa” (v. G. Andreotti, 1948. L’anno dello scampato pericolo, Rizzoli 2005, p. 69). Dunque, il contributo offerto dal Codice non rimase lettera morta. Soprattutto innervò lo sforzo della generazione cattolica post fascista nella ricerca di una via autonoma sul terreno della trasformazione della società e dell’economia, per affrontare i problemi che, a detta di Karl Polanyi, il liberalismo e il socialismo avevano lasciato insoluti.

La Terza via dei cattolici si sviluppò in un quadro di apertura, anche internazionale, senza indugiare nella  supponenza di un certo provincialismo quale ultimo retaggio dell’autarchia mussoliniana. Ebbe, grazie appunto a Paronetto, ma anche a Vanoni e Saraceno, come pure a Ferrari Aggradi, la capacità di concepire il nuovo profilo della politica d’ispirazione cristiana dentro lo scenario del progressismo anglo-americano, così come intravisto nel welfare state del Regno Unito o nel New Deal dell’America rooseveltiana. Notoriamente l’esperienza della Tennessee Valley Authority (TVA) fornì le premesse per la creazione della Cassa del Mezzogiorno.

D’altronde il Codice di Camaldoli non volle rappresentare propriamente un codice, come fu quello di Malines scritto nel 1927, ma un testo che fosse…pretesto per ulteriori apporti, al di fuori di rigidi schemi ideologici. Doveva contare lo spirito e non la lettera di Camaldoli, tanto che Moro ne fece cenno in un Consiglio nazionale del partito, a ridosso della formazione del suo primo governo, per dare robustezza teorica all’operazione di rinnovamento che il centro-sinistra aveva in animo di promuovere. Pertanto, nel discorso di Moro l’incontro storico tra socialisti e cattolici implicava per la Dc il recupero della visione di Camaldoli. Poi sembrò meno evidente il debito con la suggerestione camaldolina. Tuttavia, anche la stagione della solidarietà nazionale riportò alla luce un’idea di cambiamento che in fondo si nutriva del concetto di “terza via” presente nel Codice.

Veniamo ai giorni nostri. Finora siamo stati obbligati a maneggiare i temi di Camaldoli con l’avvertenza di non poterli incarnare, per effetto della dispersione susseguente alla fine della Dc, nella cornice di una determinata “forma partito”. E però, va detto, stiamo largamente registrando l’usura di tale condizione psicologica e materiale.  Il Card. Zuppi ha citato De Rita per descrivere l’illusione di essere forti, specialmente in politica, senza avere una forza alle spalle. Ma spetta ai laici – ha fatto intendere – assumere un’iniziativa e una responsabilità, fermo restando che la Chiesa saprà valutare quanto di buono o di vacuo verrà eventualmente alla luce. La cultura di Camaldoli non può, ad ogni buon conto, esaurirsi in un respiro cosmico di ingenuità e rassegnazione, come se oramai il destino del cattolicesimo democratico appartenesse ai custodi di buone parole. Nella società c’è un carico di estremismo – politico, culturale, etico – che va depotenziato, recuperando e aggiornando l’insegnamento della migliore tradizione democratica, intessuta di principi e valori cristiani.

Giova ancora sottolineare che nella relazione del Card. Zuppi campeggia il termine “depolarizzante” per attestare, evidentemente, l’inclinazione naturale del cristiano nel suo rapporto con la complessità della politica. In effetti la malattia di questo tempo è proprio la polarizzazione della vita civile e democratica. Quando si rifiuta la dialettica tra destra e sinistra, anche arrivando a disertare le urne, è segno che una pubblica opinione matura considera forzata la classificazione entro questo schema predefinito. È vero, progresso e conservazione non sono la medesima cosa; ma il confine tra l’uno e l’altra non è rigido, essendo piuttosto dubbia, ad esempio, l’attribuzione del carattere di “progresso” a un trans-umanesimo senza più rispetto per l’uomo o di “conservazione” a un neocorporativismo economico-sociale implicante la rottura di una solidarietà a più ampio raggio. Dunque, che fare per essere depolarizzanti? Dobbiamo ragionare attorno alla necessità di un nuovo partito? Non è una risposta facile, lo sappiamo. Ma se scartiamo un’opzione, abbiamo anche il dovere di indicare un’alternativa. E oggi, stare fermi non è più un’alternativa. Si rischia solo di coprire il quieto vivere delle nostre coscienze.

N.B. Ieri il quotidiano “Avvenire”, nella pagina di cronaca politica, ha pubblicato il testo in una versione ridotta [Titolo – Fioroni: “La cultura di Camaldoli non è morta, ma i cattolici indichino l’alternativa alla polarizzazione”].

Il programma del Sindaco di Udine può aprire la strada a un nuovo riformismo

Ho ringraziato il Sindaco di Udine per il suo Manifesto (lo si può leggere su Il Domani d’Italia) con il quale esalta un riformismo – radicato nei territori – che ama propriamente definire “democratico e comunitario”.

Noi siamo legati alla lezione di Sturzo. Il Partito popolare non nacque nei laboratori di politologia né fu la proiezione di scelte ecclesiastiche; al contrario, ebbe origine nel confronto sui problemi delle comunità, mettendo “a terra” un nuovo programma municipalistico. A Caltagirone, in qualità di Pro Sindaco, Sturzo mise in pratica gli ideali della prima democrazia cristiana.

Con il Sindaco De Toni va esteso a livello nazionale il disegno che per adesso, in modo serio, ha preso forma nella realtà udinese. Dobbiamo valutare come favorire un dialogo a più voci, dando una prospettiva ancora più ampia e robusta alle idee del Manifesto che il Sindaco ci propone. Gli amici di “Tempi Nuovi” si sentono coinvolti in questa opera di ricostruzione del riformismo di matrice comunitaria e popolare. Dopo l’estate, senza indugio, organizziamo un incontro a Roma: sono sicuro che le adesioni non mancheranno, come del resto non sono mancate, venerdì scorso, al convegno alla Bonus Pastor.

C’è molto lavoro da fare, ma non ci manca la voglia…di farlo.

Prendere coscienza del tempo per viverne anche la semplice pausa

Quando ho iniziato a preparare questo intervento sul controverso tema dell’accelerazione nella nostra società ho trovato (appunto) “immediatamente” una quantità esorbitante di articoli, saggi e analisi a riprova del fatto che la questione è aperta, sentita e dolorosa e che nonostante ciò ognuno ne trae all’occorrenza anche il suo beneficio.

Ho letto con interesse una moltitudine di testi messi a disposizione online e consultato perfino un libro consigliatomi da un blog sulla materia…con il risultato che più riflettevo sugli effetti collaterali della vita ad alta velocità più lavoravo con estrema e ritrovata lentezza,  rischiando per altro di arrivare impreparata all’appuntamento.

Cosa ho appreso?

–  Stiamo andando troppo veloci senza sapere verso dove né tanto meno perché;

– Continuiamo a non aver capito un accidente del senso ultimo dell’esistenza, anzi possibilmente più corriamo e meno ne sappiamo;

– Abbiamo abbandonato le giovani generazioni in prima linea nella ridicola lotta contro il tempo (e lo spazio): la gen-Z è la fascia più appetibile del mercato ma anche la più martoriata dai ritmi incalzanti di una vita al massimo, lasciata per lo più priva di strumenti per difendersene.

Da docente di Lettere, dopo aver letto questa lunga serie di ottime dissertazioni scientifiche di cui sopra, sono tornata alla Letteratura che prima di tutti e spesso meglio di tutti racconta vizi e virtù della nostra fragile umanità. Ho deciso, allora, di cominciare da una frase: “Io, se avessi cinquantatré minuti da spendere, camminerei adagio adagio verso una fontana…”. Siamo al capitolo XXIII del Piccolo Principe e il nostro giovane protagonista con genuina e spiazzante saggezza si rivolge così al mercante di pillole che levano la sete e quindi fanno risparmiare un certo numero di minuti alla settimana. Con una semplice e genuina affermazione egli oppone alla logica acefala della velocità e del risparmio di secondi quella di una lentezza carica di senso. Ed è lui lo stesso Piccolo Principe a cui una simpatica volpe ha spiegato magistralmente, in un paio di capitoli precedenti, che è proprio il tempo perduto per accudire la sua rosa a renderla così speciale.

Del resto, il senso è che la fiducia si conquista deponendo la fretta e prestando attenzione agli incontri, perché solo attraverso la pazienza, la gradualità e la fedeltà ci si può “addomesticare”. Ed “addomesticare” (e lasciarsi “addomesticare”) è innanzitutto una responsabilità emotiva, una delle responsabilità, forse la principale, che nella nostra epoca fatichiamo a prenderci. Ecco, comprendere questo assunto è forse il significato più interessante del viaggio del Piccolo Principe e più che mai oggi dovrebbe essere il significato anche del nostro di viaggio, così contaminato da quella che il sociologo Paul Virilio chiama la dromocrazia, ossia il potere consegnato alla rapidità.

Lo sapeva bene Collodi (anche senza aver letto Virilio) che del burattino toscano campione di velocità e frenesia, quel Pinocchio spasmodicamente affamato di novità e di esperienza, ne ha fatto una metaforica quanto impeccabile profezia dell’uomo contemporaneo, in balia degli eventi e intrappolato nel suo moto tanto continuo quanto ingannevole. E lo sappiamo bene anche noi insegnanti che come dice Rosseau nell’Emilé, facciamo “un mestiere in cui bisogna saper perdere tempo per guadagnarne”. L’apprendimento, l’assimilazione, la lettura, la riflessione, la ricerca, il discernimento, la rielaborazione sono attività cognitive per le quali valgono più o meno gli stessi domini temporali da secoli e secoli, non c’è progresso che tenga: quando si tratta di imparare bisogna riuscire a rallentare, il tempo del pensiero non sarà mai il tempo del motore.  Eppure, approfondire, scandagliare, sperimentare sembrano non essere più delle priorità nel nostro universo iper connesso e iper complesso dove restare in una dimensione orizzontale e quindi superficiale e quindi banale è di gran lunga più consigliato di addentrarsi nelle vertiginose profondità della nostra dimensione verticale.

Cosa può fare la scuola per le nuove generazioni immerse nella pervasiva onnipresenza della tecnologia, invorticate nella cronofagia, indotte a fagocitare tempo, prodotti, relazioni con il minor sforzo cerebrale possibile? La scuola può provare a salvare il salvabile con gli strumenti che ha, molto pochi, e con le risorse umane di cui dispone, per fortuna ancora generose. Com’è lo stato dell’arte? Pessimo: i nostri ragazzi sono ultra sollecitati da stimoli continui e contraddittori, incastrati in luoghi virtuali solo apparentemente illimitati che accorciano i loro orizzonti, comprimono le loro energie, ostacolano quotidianamente la loro immaginazione e li riducono a meri contenitori di dati commerciali rivendibili al miglior offerente. E ancora sono attanagliati dall’invidia e dalla mitizzazione, (i più grandi combustibili dei social network), sono invasi in ogni sfera, anche la più intima, dai tentacoli del web: insicuri, arrendevoli, pavidi, scoraggiati, disarmati e disarmanti.

Ma soprattutto frettolosi.

Eppure, se le attività di ogni giorno sono sempre “più facili e veloci” e se, come vogliamo far credere loro, “si può avere tutto e subito”, perché sembra non abbiano mai abbastanza tempo e perché sembra non riescano mai ad essere soddisfatti dei loro traguardi? E come mai se ci sono così tante imperdibili avventure da affrontare “al top”, due giovani su cinque tra i 25 e i 30 anni trascorrono le loro giornate senza né studiare né lavorare e perché la maggior parte dei miei studenti adolescenti dichiara di morire di noia ogni pomeriggio? E inoltre, se lo scopo dei potenti mezzi di comunicazione era connettere più persone possibile simultaneamente ed efficacemente, perché i ragazzi si sentono così terribilmente soli? …Perché ci sentiamo così terribilmente soli?

Del resto, ammettiamolo, i giovani sono solo più esposti e meno consapevoli, ma la realtà è che il loro disagio riguarda a livelli diversi noi tutti. Il sovraccarico di comunicazioni crea impasse e frustrazione, (prendiamo ad esempio la mole di mail che riceviamo ogni giorno sulle nostre caselle e la loro conseguente saturazione), così come il sovrannumero di macchine e persone nelle nostre aree urbane crea blocchi e intasamenti. Allo stesso modo, la foga di fare ingenera la nostra poca voglia di fare, perdiamo prezioso tempo a scrollare un telefono (come tra l’altro alcuni di voi staranno probabilmente facendo anche adesso per scarso interesse) poiché manca la percezione di investire opportunamente il tempo, fosse anche solo per ritrovare un vecchio ricordo. Manca la cura del tempo. La depressione non è mai stata così diffusa e, ahimè, sembrerebbe funzionare come la sclerotizzazione del movimento, un movimento eccessivo, dispersivo, febbricitante, disarticolato che porta in ultima istanza alla paralisi.

Lo so, speravate che vi dessi buone notizie, ma non è questo il caso. Possiamo, tuttavia, consolarci ripercorrendo un po’ la storia di questa accelerazione che oggi ricasca così violentemente sulle spalle dei nostri nipoti, figli o studenti. Il progresso è un fenomeno che ha interessato l’intera umanità sin dai tempi più antichi, lo slancio verso il cambiamento ha caratterizzato da sempre la nostra specie, trovando forse la maggior espressione nell’ambizioso uomo europeo dell’età moderna. Le ore, i minuti, i secondi, gli istanti si sono messi a correre a partire dalla Rivoluzione Scientifica e Industriale, ma anche attraverso il mito americano della conquista del West, trasportati ad alto voltaggio dall’ampliamento della frontiera. Era il 1872 quando nel suo immaginifico “giro del mondo in ottanta giorni” Verne fantasticava sull’abbattimento dei tempi di percorrenza del Pianeta e sulla contrazione delle lunghe distanze attraverso efficientissimi mezzi di trasporto, qualche decennio dopo accadeva davvero. Nel primo Novecento i Futuristi italiani affermavano nel loro Manifesto che la magnificenza del mondo si era arricchita di una bellezza nuova, la bellezza della velocità. “Un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia” scriveva Marinetti. Quanti ne ha fatti di danni poi quella “mitraglia”…

Dal cronometro di Taylor introdotto in fabbrica agli attuali sistemi di rilevazioni e tracciabilità, la cultura della sorveglianza non si è mai arrestata, solo affinata, come il resto dei brevetti, fino ad arrivare ai giorni nostri: nella realtà aumentata i battiti delle nostre palpebre possono perfino dare impercettibili comandi digitali, eserciti di algoritmi istantanei governano mercati finanziari ormai completamente scollati dall’effettiva produzione industriale, vorticose salite di titoli si alternano a fulminee cadute di interi sistemi economici, la precarietà del mondo al galoppo si allarga a macchia d’olio alle comunità umane dandoci l’impressione, attraverso i mezzi di informazione, di transitare di fatto da una catastrofe all’altra.

Pensate che, secondo il filosofo Andrea Colamedici, oggi il peggior competitor di un’azienda non è affatto un’altra azienda dello stesso settore, ma è l’uomo che dorme, poiché non consuma. E non corre. Le vite nostre e quelle dei nostri figli o studenti sono programmate in ogni dettaglio, perfino il relax o il piacere sono “schedulati” dentro rigide pianificazioni, e questo perché non stare al passo (svelto) “di tutti gli altri” vuol dire rischiare di diventare obsoleti, come un prodotto superato, nella china scivolosa di un anacronismo. Quando Pascal scriveva che tutta l’infelicità degli esseri umani derivava dal non saper restarsene tranquilli in una stanza, non immaginava proprio che di lì a poco l’uomo non sarebbe più riuscito a starsene tranquillo neanche in quella stanza: una stanza da cui a ben vedere oggi possiamo potenzialmente acquistare e raggiungere tutto…tranne la felicità.

E così i rapporti sono effimeri, l’ansia è  epidemica e si seda con rimedi farmacologici, la spiritualità va bene solo se è monetizzabile, lo studio serve solo se è sufficientemente specifico e spendibile nel mercato del lavoro, i messaggi vocali WhatsApp si alterano per velocizzarli, le attese (di una risposta, di un semaforo verde, dello smaltimento di una coda di traffico) diventano insopportabili. Per “fortuna”, i nostri schermi ammortizzano questi temuti interstizi di tempo, questi “vuoti d’aria”. Ma cos’è che non vogliamo sentire in quelle pause che non ci concediamo più? Con tutta probabilità quando non ci fermiamo è la morte che non vogliamo sentire, la grande rivale grazie alla quale abbiamo fatto tutto quello che abbiamo fatto, nel bene e nel male. Eppure, rimuoverla, rifuggirla, significa rifuggire anche dalla vita che le è indissolubilmente legata, in un rovescio della medaglia.

Sono cresciuta dentro un’Accademia, l’Accademia Nazionale di Danza. Nella musica e nella danza, come anche nella recitazione, le pause hanno esattamente lo stesso valore del suono, se non maggiore… dialogano con l’azione, esprimono una loro identità, danno tempo al tempo del recupero, della sedimentazione, del raccolto, tanto all’artista quanto allo spettatore. I tempi delle pause, i tempi lenti, o meglio sarebbe dire i tempi giusti, sono poi a ben vedere gli stessi della natura, della preghiera, della gravidanza, del battito del cuore, dei cambiamenti sociali. E se la pausa è invece percepita come pigrizia, come assenza di buona volontà e di operatività, allora l’agire senza tregua ci sottrae dall’ozio. Ma cos’è l’ozio se non quel concetto che gli Antichi Romani tanto amavano nella consapevolezza che esso servisse a creare bene e meglio. Nella gerarchia dei romani lo status sociale di un cittadino dipendeva da quanto tempo poteva dedicare allo svago. Gli sfortunati, invece, caterve di schiavi e simili, erano intenti a mandare materialmente avanti l’impero e non potevano che occuparsi del “nec otium”. Ossia della negazione dell’ozio.

Nella nostra società invece assistiamo al paradosso che solo chi è sempre a lavoro, produttivo e reperibile è lodevole e degno di stima.

Troppo occupati nel nostro agire fatichiamo alla fine a pensare autonomamente senza prima aver consultato quello che le nostre rassicuranti indicizzazioni ci consigliano nei feed. Il villaggio globale tanto auspicato non è stato mai veramente fondato, diciamolo una buona volta: abitiamo piuttosto micro enclave abbastanza smarrite nell’individualismo, nell’utilità, nella concorrenza, nel consumo, nell’iper personalizzazione, mentre l’umanità dovrebbe essere nutrita dalla comunità, dalla cooperazione e dalla condivisione. Il vero quesito, dunque, che mi e vi pongo è quale ruolo vogliamo dare al passato e al futuro, considerando che viviamo in un presente esteso e onnipresente, sempre più accentuato ed enfatizzato. Le visioni di breve termine non portano lontano perché sono le esperienze che richiedono una costruzione strutturata e progressiva quelle che gettano fondamenta stabili per il futuro, per la società e per la memoria collettiva.

Occorre riflettere sul fatto che il tempo prima ancora di essere una merce di scambio è, come spiega Sant’Agostino, “una dimensione interna che coinvolge l’essere umano integralmente”. Non solo quindi una dimensione consequenziale e lineare, ma anche trascendentale e intima. C’è una dimensione del tempo che non si può misurare, ma non per questo è meno reale. Invece, noi, dimenticandolo, avanziamo di corsa, a colpi di Post e di App, verso un futuro senza avvenire da osservare in mondovisione tra un incidente in diretta e una scoperta per procedere più veloci privi di meta. Atleti del nulla. Meglio le ali spiegate della Nike di Samotracia, l’automobile ruggente io la lascio ai piloti.

In conclusione, la cattiva notizia è che il tempo è diventato redditizio tanto quanto il petrolio, se non di più, perché la sua accelerazione è uno dei massimi paradigmi del nostro sistema sociale. Ma una buona notizia c’è ed è che in parte ne siamo ancora padroni e abbiamo il dovere di farlo capire ai nostri ragazzi. Non è eliminando lo sviluppo informatico che risolveremo il problema, piuttosto rimettendo in discussione il suo scopo. E chiudo con il capolavoro di Lewis Carroll: “Per quanto tempo è per sempre?” chiede Alice al Bianconiglio. E il Bianconiglio risponde: “Alle volte, solo un secondo”. Cerchiamo di sentirlo ancora scorrere questo infinito, infinito secondo.

Formiche | Il lascito politico di Forlani secondo l’analisi di Fioroni

Il Presidente Sergio Mattarella ai Funerali di Stato dell’Onorevole Arnaldo Forlani,saluta i familiari (foto di Francesco Ammendola - Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)

[…] Difficile dire se prevalesse nel suo animo una dose di rassegnazione o di autocontrollo, magari l’una nasceva dall’altro e viceversa. Certo, non credeva alla immortalità della Dc. Con il solito glamour all’inglese, fece osservare in un Consiglio nazionale che millenni prima era finito anche l’impero degli Ittiti — figuriamoci, perciò, se non poteva finire il potere dei democristiani.

Sarebbe interessante capire quale nesso abbia congiunto la formazione giovanile, debitrice dell’ansia riformatrice del dossettismo, alla postura moderata del Forlani della maturità. Il suo percorso, a ben vedere, si snoda lungo il binomio di “conservazione e superamento” che caratterizzerà l’azione di Fanfani rispetto alla lezione di Dossetti. Eppure, anche rispetto all’attivismo di Fanfani l’usuale posatezza di Forlani appare fuori quadro. Ciò nondimeno, in contrasto con l’accusa di vaporosità rivolta al forlanismo, sta la costanza di un pensiero molto netto che ha colto nella dinamica storica della politica italiana la novità del centro-sinistra come esito del confronto tra cattolici e socialisti. Qui sta, a mio avviso, la continuità della politica forlaniana e qui anche il messaggio che lascia per il presente e per il futuro, giacché si tratta, in effetti, della continuità che nel variare delle scelte, sempre oggetto del conflitto che pervade e qualifica la democrazia, ha segnato il concetto di progresso e stabilità – tutt’e due i fattori insieme – nello svolgimento della politica del leader marchigiano.

Alla fine, se oggi volessimo interrogarci seriamente sul lascito politico di Forlani avremmo da compiere un salto all’indietro per farne due in avanti, nella sostanza cercando di capire come la cultura cattolico popolare e democratica, da un lato, e la cultura socialista dall’altro possano reincarnarsi in una nuova progettualità politica, con le necessarie condizioni di sostenibilità organizzativa. Da questo nucleo teorico, se definito con rigore e lungimiranza, può irradiare la complessa ideazione di una nuova politica di centro. È una sfida in cui possiamo ritrovare il gusto di Forlani per un avanzamento, ancorché prudente, sulla via del progresso civile del Paese.

 

Per leggere il testo completo dell’articolo

formiche.net/2023/07/forlani-politica-primo-centro-sinistra/

 

Come trasformare il presente

Nel cuore della Città Eterna, a due passi dal Vaticano, un evento tutto politico promette di suscitare riflessioni stimolanti. Il titolo è eloquente, in parte riprende quello della prossima Settimana Sociale dei cattolici italiani (Trieste, 2024).

Organizzato dall’associazione “Tempi Nuovi”, si svolgerà il 14 luglio presso la Casa Bonus Pastor in via Aurelia 208, a Roma.

In un’epoca caratterizzata da rapidi cambiamenti sociali, tecnologici e culturali, il ruolo dei cattolici nell’ambito pubblico sta diventando sempre più cruciale. “Come Trasformare il Presente” è una domanda che richiede risposte ponderate, dettate dalla fede e dalla ragione, fuori da schematismi ideologici.

Ci si focalizzerà sulle sfide che i cattolici devono affrontare all’interno della sfera politica, sul rapporto tra cristianesimo e modernità e su come la fede possa influenzare positivamente le politiche pubbliche, offrendo un quadro di riferimento etico solido e una prospettiva umanistica.

Dopo gli interventi di Cecilia Lavatore e Lorenzo Pregliasco, una parte significativa del convegno sarà occupata dal colloquio tra Giuseppe Fioroni e Francesco Verderami, una delle grandi firme del Corriere della Sera.

L’idea centrale chiama in causa il rispetto della dignità umana. Questo concetto, radicato nella dottrina sociale della Chiesa, sottolinea l’importanza di riconoscere e rispettare la dignità intrinseca di ogni persona, indipendentemente dalla sua origine, etnia, religione o condizione sociale.

Un altro aspetto rilevante è quello della pace e della riconciliazione. I cattolici impegnati in politica cercano di essere portatori di speranza in un mondo segnato da conflitti e divisioni. La loro azione politica è guidata dall’aspirazione a costruire ponti tra culture, religioni e ideologie, promuovendo il dialogo e cercando soluzioni pacifiche ai conflitti. La pace è vista come un elemento fondamentale per la costruzione di una società basata sulla giustizia e sulla solidarietà.

Non basta approntare una lista, i riformisti per l’Europa devono far chiarezza sul programma

Fino a qualche mese fa teneva banco una versione laica e liberale, legata in parte all’azionismo, della possibile convergenza tra le forze riformiste di centro. Con il fallimento dell’unificazione di Italia Viva e Azione, è cambiato il tono del confronto: tanto Renzi quanto Calenda, protagonisti finora di questo appello, hanno incominciato a battere sul tasto della necessaria collaborazione con i cattolici democratici. Indubbiamente è un passo avanti, se davvero s’intende preparare il terreno in vista delle elezioni europee del prossimo anno.

Servono tuttavia dei chiarimenti, per non ingenerare aspettative poco fondate. Mettersi insieme a prescindere da un programma chiaro, realmente condiviso, può valere solo come labile e momentanea suggestione. A quale Europa intendiamo rifarci? Spesso si evoca Altiero Spinelli, profeta della scelta federalista, per voltare le spalle all’europeismo di Alcide De Gasperi: i meriti dell’uno non avrebbero peso se non inseriti nel disegno politico dell’altro. Con De Gasperi l’unità europea è passata dall’utopia alla concretezza storica. Per questo il nostro Novecento mantiene traccia visibile dell’opera svolta dai grandi partiti democratici cristiani sul fronte di battaglia per l’Europa, a lungo in opposizione ai comunisti.

L’impegno comune richiede uno sforzo comune. Non si può pensare a una lista delle forze riformatrici di centro se permane l’idea di una generica e confusa aggregazione. Ci sono partiti che nell’europeismo riversano la loro ideologia liberal-libertaria, usando i diritti individuali come arma di discriminazione verso tutti coloro che su delicate questioni etiche esprimono riserve motivate. L’individualismo sfrenato, sia nell’etica che nell’economia, rende complicato l’accordo tra le autentiche tradizioni del riformismo democratico. Con il dovuto rispetto, la lista con Maggi e la Bonino sta fuori dall’orizzonte dei cattolici democratici.

La questione esige in fondo più chiarezza sul come liberal-democratici e liberal-popolari, garantendo nell’insieme l’afflato solidaristico-sociale e gli stimoli provenienti dal civismo, possano dar vita a una lista fortemente innovativa, capace di aderire alle speranze e ai bisogni dei ceti popolari. Se si vuole raggiungere l’obiettivo, occorre mettere da parte l’orgoglio partigiano che nasconde il più delle volte incoercibili e inaccettabili presunzioni. Ci vuole, al contrario, tanta umiltà e tanta generosità. Le idee camminano sulla gambe degli uomini ed essi, per stare all’altezza del compito, non possono arroccarsi nei loro tornaconti e neppure adagiarsi nell’amore per i transfughi.

La lista dei riformisti per l’Europa esige chiarezza sui programmi

Fino a qualche mese fa teneva banco una versione laica e liberale, legata in parte all’azionismo, della possibile convergenza tra le forze riformiste di centro. Con il fallimento dell’unificazione di Italia Viva e Azione, è cambiato il tono del confronto: tanto Renzi quanto Calenda, protagonisti finora di questo appello, hanno incominciato a battere sul tasto della necessaria collaborazione con i cattolici democratici. Indubbiamente è un passo avanti, se davvero s’intende preparare il terreno in vista delle elezioni europee del prossimo anno.

Servono tuttavia dei chiarimenti, per non ingenerare aspettative poco fondate. Mettersi insieme a prescindere da un programma chiaro, realmente condiviso, può valere solo come labile e momentanea suggestione. A quale Europa intendiamo rifarci? Spesso si evoca Altiero Spinelli, profeta della scelta federalista, per voltare le spalle all’europeismo di Alcide De Gasperi: i meriti dell’uno non avrebbero peso se non inseriti nel disegno politico dell’altro. Con De Gasperi l’unità europea è passata dall’utopia alla concretezza storica. Per questo il nostro Novecento mantiene traccia visibile dell’opera svolta dai grandi partiti democratici cristiani sul fronte di battaglia per l’Europa, a lungo in opposizione ai comunisti.

L’impegno comune richiede uno sforzo comune. Non si può pensare a una lista delle forze riformatrici di centro se permane l’idea di una generica e confusa aggregazione. Ci sono partiti che nell’europeismo riversano la loro ideologia liberal-libertaria, usando i diritti individuali come arma di discriminazione verso tutti coloro che su delicate questioni etiche esprimono riserve motivate. L’individualismo sfrenato, sia nell’etica che nell’economia, rende complicato l’accordo tra le autentiche tradizioni del riformismo democratico. Con il dovuto rispetto, la lista con Maggi e la Bonino sta fuori dall’orizzonte dei cattolici democratici.

La questione esige in fondo più chiarezza sul come liberal-democratici e liberal-popolari, garantendo nell’insieme l’afflato solidaristico-sociale e gli stimoli provenienti dal civismo, possano dar vita a una lista fortemente innovativa, capace di aderire alle speranze e ai bisogni dei ceti popolari. Se si vuole raggiungere l’obiettivo, occorre mettere da parte l’orgoglio partigiano che nasconde il più delle volte incoercibili e inaccettabili presunzioni. Ci vuole, al contrario, tanta umiltà e tanta generosità. Le idee camminano sulla gambe degli uomini ed essi, per stare all’altezza del compito, non possono arroccarsi nei loro tornaconti e neppure adagiarsi nell’amore per i transfughi.

Proposte e alleanze chiare in vista delle elezioni europee

Il capogruppo dei Popolari europei, Manfred Weber, appartenente all’ala destra dei cristiano sociali bavaresi, esce a testa bassa dalle giornate di studio organizzate a Roma con l’intento, neppure troppo velato, di ottenere da Papa Francesco una sorta di benedizione al progetto mirante a saldare il Ppe al partito dei Conservatori e dei Riformisti, presieduto da Giorgia Meloni. Si sa che la Cdu, a cui si affianca nel Parlamento federale tedesco la Csu della Baviera, è molto più cauta su questo punto, giacché vede nella rottura a Strasburgo e Bruxelles dell’asse con socialisti e liberal-democratici un’avventura dai contorni poco chiari. A Roma si è visto come Weber insista nell’operazione, sebbene con effetti per adesso negativi, dal momento che qui trova sponda proprio in Forza Italia, e segnatamente in Antonio Tajani, dato evidentemente l’interesse del mondo berlusconiano a rimettere in discussione gli equilibri all’interno della coalizione oggi alla guida del governo.  

Si dimostra ancora una volta come la dissoluzione della Dc abbia determinato in Europa il superamento della dialettica tra l’anima popolare dei democristiani italiani e la vocazione moderata ed efficientistica dei cristiano democratici tedeschi, spostando il Ppe su posizioni che finiscono per oscurare il contributo e l’apporto della cultura politica originaria. Non si capirebbe il messagggio di Papa Francesco, indirizzato ai parlamentari convenuti a Roma, se non in questa ottica di preoccupazione per l’appannamento dell’ideale democratico di ispirazione cristiana. Weber ne deve tener conto e con lui l’insieme dei Popolari europei.

Ma cosa ha detto il Pontefice? Vale la pena riportare uno stralcio del messaggio: “…a me piace dire che ci vogliono dei «sogni» […] Per affrontare [le] sfide come Europa unita, ci vuole un’ispirazione alta e forte. E voi […] dovreste essere i primi a fare tesoro degli esempi e degli insegnamenti dei padri fondatori di questa Europa”. Parole che vanno meditate, non per farne strumento di reciproche rivendicazioni, a dispetto della necessaria distinzione tra ruolo della Chiesa universale e quello dei cristiani impegnati nella vita democratica. In sostanza, l’appello di Papa Francesco deve costituire l’orizzonte di un sano pluralismo per uomini e donne che vogliano comunque, con la loro autonomia, animare una proposta poltica adeguata ai tempi e alle circostanze.        

Ora, se pensiamo a una ripresa d’iniziativa dell’area cattolico democratica, essendo questa nostra componente la chiave di volta della possibile ricostruzione di un “baricentro” della politica italiana, lo dobbiamo fare con il cuore e la mente orientati al “sogno” di un europeismo vitale e generoso, impegnativo per il mondo intero. Per questo abbiamo bisogno di non disperdere il senso dell’appartenenza a una determinata visione della democrazia e della libertà, specie nel contesto di un’Europa che si vorrebbe, da parte di forze ultra liberiste, trasformare nel fortilizio dei diritti individuali, intesi radicalmente come leva di una società post-umanista. C’è dunque bisogno di coerenza.

Ecco allora che alcune battute polemiche risultano prive di fondamento. Quando il “radicale” Riccardo Magi (Più Europa) ostenta una linea aggressiva verso il tentativo di comporre una lista democratica e solidarista per le europee, aggredendo in questo caso “Tempi Nuovi” a causa del suo essere esigente sul piano programmatico e politico si cade nella confusione delle lingue e nella mancanza di rispetto degli uni verso gli altri. Noi vogliamo proporre un discorso nuovo, ma non confusamente e in modo equivoco. È dunque logico che una lista, per la quale ci disponiamo a dare un apporto significativo, si caratterizzi come luogo di rispecchiamento di ideali convergenti con la nostra ispirazione democratica e cristiana.

Alle volte anche Calenda sembra incline a rimarcare questo tratto di “identitarismo laico”, dando l’impressione che l’alleanza con Più Europa sia uno sbocco inevitabile. Se così fosse, Magi e Calenda facciano la loro strada, sapendo che non sarà la strada che potremo percorrere insieme. A ognuno compete infatti di rivolgersi agli elettori con tutta la chiarezza necessaria, perché il passaggio delle elezioni europee richiede una grande mobilitazione, oggi più di ieri, in nome di un progetto all’altezza delle sfide per l’integrazione e la convivenza civile, che interessano i popoli e le nazioni del Vecchio Continente. 

L’ideologia che si cela dietro al Gay Pride non fa bene alla società.

Oggi, ai molti che guardano con prudenza alle “innovazioni” in campo etico, viene rimproverato di essere fuori dal tempo, anzi di scivolare all’indietro, nel buio di secoli bui. È un modo sbrigativo per avere ragione o meglio per imporla, senza preoccuparsi di coltivare il rispetto della corretta interlocuzione. Prevale così la violenza verbale. E questo non giova alla serietà del confronto politico perché indebolisce il tenore delle argomentazioni, perlopiù ridotte a schermaglie ideologiche. Si tratta pertanto di reagire a tutto ciò che alimenta questa spirale negativa.

Il Gay Pride, si dice, è una festa colorata: alza la bandiera dei diritti, chiede il ripudio di ogni discriminazione, esalta un concetto più alto di libertà. Perché lo si attacca, addirittura parlandone come di una pagliacciata? Ecco, fin qui non c’è da obiettare granché, salvo il fatto che questo evento così colorato, per restare all’aggettivo di moda, sconfina in un esibizionismo non sempre gradito. Il problema però non riguarda tanto le forme e nemmeno i contenuti agevolmente condivisibili, bensì il “confezionamento” di una manifestazione che vuole rappresentare un mutamento radicale degli stili di vita, dei costumi individuali e collettivi, dell’etica condivisa. Dietro la giocosità degli slogan fa capolino il disegno ideologico.

Bisogna fare chiarezza, con onestà e lealtà. Alcuni esempi sono inquietanti. Se il Gay Pride veicola l’dea della normalizzazione della maternità surrogata, volendo con ciò intendere che l’utero in affitto è sostenibile qualora il consenso della donna sia esente da coercizioni, allora c’è tutto il diritto di obiettare in virtù di principi per i quali vale la forza di una riserva di tipo antropologico. L’umanità non può soffocare nelle spire di un “diritto al desiderio” che infrange il suo limite creaturale. Oltretutto il desiderio non entra automaticamente nella sfera del codice normativo, ossia non è di per sé un diritto a cui appellarsi e conformarsi. Di questo passo il “transumanesimo” si rivela il passepartout di un “liberismo etico” che, passaggio dopo passaggio, finisce per diventare la “trappola dell’umano”. In sostanza, si arriva fatalmente a un antiumanesimo che spoglia la persona della sua identità e dignità.

Ora, di fronte a questo scenario, la politica non può assestarsi nel ruolo di ricettore passivo di qualsivoglia insorgenza libertaria. Sembra che a breve anche l’incesto si guadagni lo spazio di un’attenzione benevola, purché svincolato da una finalità procreativa. Dunque, una regola dettata dall’appagamento individuale spinge la società a sperimentare il rischio dell’anomia, lasciando in piedi una sorta di autogestione della “sregolatezza”. Fino a che punto si può dribblare l’appuntamento con una verifica seria di tali problemi? Non è azzardato ritenere che nella pubblica opinione cresca sempre più il timore per questo disconoscimento del vincolo etico.

La risposta non è compressa – certamente non deve esserlo – nel bipolarismo tra libertà e repressione, con la faziosità eretta a sistema; può esistere, invece, nella circolarità del dialogo, legando umanesimo laico e umanesimo religioso; essere cioè una risposta, in conclusione, che articoli la disponibilità a fluidificare i rapporti, senza schemi preordinati. Lungo la linea di un nuovo umanesimo potrà venire alla luce il profilo di nuove alleanze, per dare rappresentanza a una esigenza di equilibrio e mitezza in questo tempo di radicalismi che rendono impervio il paesaggio della politica.